Prima dell’era degli smartphone e dell’ossessionata ostentazione dell’Io, glorificata nell’era dei selfie, la foto di classe aveva un elevato valore intrinseco, in grado di rappresentare impeccabilmente l’identità e il percorso di ogni individuo nel preciso periodo storico-sociale nella quale era scattata. Se prendessimo a campione cento foto di classe scattate in cento licei italiani nell’ultimo lustro degli anni 90 saremmo in grado di notare un robusto filo conduttore che le accomuna e le rende antropologicamente affascinanti nel corso degli anni.
La foto del primo anno cattura i tratti residui dell'infanzia e i segni di un'adolescenza ancora in fiore. Sono trascorsi pochi mesi dall'esame di terza media e i volti conservano un'innocenza quasi infantile; gli abbracci sono genuini e l'abbigliamento casual domina la scena, con le sue camicie a quadri, maglioni a strisce, le onnipresenti tute sportive e quei capi che oggi guardiamo con un pizzico di imbarazzo.
La fotografia del secondo anno si colloca in una fase di passaggio, difficile da decifrare: non si è più bambini, ma si è lontani dall'essere adulti. Gli abbracci sono invariati, ma i volti iniziano a delinearsi e i vestiti si trasformano, riflettendo le prime audaci espressioni di identità personale, con magliette dei Nirvana, accenni di stile grunge o hip-hop, le camicie da grandi dei giovanotti o l'apparizione delle prime minigonne utilizzate anche a scuola.
Nell'immagine del terzo anno si percepisce un'evoluzione marcata verso la maturità, i ragazzi sfoggiano espressioni più adulte, le sembianze delle ragazze si avvicinano sempre più a quelle delle donne che diventeranno. Questa transizione si manifesta con chiarezza nelle fotografie del quarto e del quinto anno, quando l'adolescenza raggiunge il suo culmine e si appresta a cedere il passo all'età adulta, lasciando intravedere i tratti definitivi di ciò che ognuno diverrà.
Tra le cinque foto di classe del liceo, quella che inevitabilmente mi strappa il sorriso più ampio è l'istantanea del terzo anno. C'è qualcosa di magico in quell’istantanea, quella fotografia è un mosaico di sorrisi e sguardi che cercano la propria strada, di pose che oscillano tra l'audacia e la timidezza. È un ritratto collettivo che parla di legami e di momenti condivisi, di battute sussurrate tra i banchi e di sogni ancora in fase di definizione. È l'immagine di una classe che sta crescendo insieme, affrontando le sfide dell'adolescenza e gettando le basi per le avventure che verranno.
Quell’anno, per motivi logistici, il preside aveva deciso di spostare l’intera classe in un plesso diverso, e questo cambiamento simboleggiava la mia nuova personale direzione di vita e di pensiero. Oltre ad un evidente cambiamento fisico, somatico, il terzo anno per me ha rappresentato la nascita dell’archetipo di uomo che sono poi diventato negli anni, ma soprattutto la consapevolezza del percorso di studi che avrei voluto intraprendere, un percorso che avrebbe buttato giù dalla torre le materie scientifiche per salvaguardare quelle umanistiche. Quell’anno presi una decisione drastica, avrei dedicato ogni mia singola ora di studio a materie come l’Italiano, la storia, la filosofia, le lingue straniere e il minimo sindacale alle materie di stampo scientifico, che in termini di ore di lezioni settimanali in classe erano le stesse di quelle umanistiche. Continuavo a ripetere che se avessi voluto studiare matematica e fisica sarei andato allo scientifico e mai avrei potuto pensare che dietro formule e teoremi si potessero celare le più raffinate trame letterarie, mai avrei potuto pensare che dietro la scienza naturale che studia la composizione, la struttura e le proprietà della materia si potesse celare la maestria di un personaggio di puro stampo Goldoniano, mai avrei potuto pensare a tutto cio’ fino a quella fatidica giornata.
Era una delle ultime mattine di sole di settembre e, consapevoli di avere a disposizione un’ora di libertà causata dall’assenza a tempo indeterminato del professore di chimica, avevamo deciso di trasferire in aula la baldoria iniziata accanto al distributore di bevande posto giusto di fronte alla porta d’ingresso, dopo esser stati ammoniti dal bidello che aveva zittito il nostro baccano con l’urlo “Avast Sciatavinn”, (in italiano: Basta andatevene).
Passarono pochi minuti prima che dalla porta entrasse un uomo che tutti individuarono come l’ennesimo bidello giunto in classe per farci una ramanzina. Era un uomo dal fisico asciutto, alto, vestito in maniera abbastanza anonima e caratterizzato da un volto simpatico, messo in risalto da un paio di occhiali dalla montatura leggera e da un’acconciatura dominata da un riporto che da quel giorno in poi avrebbe seguito le direzioni degli spifferi di vento che dominavano il corridoio del piano terra.
Attraversò con nonchalance due dei tre metri che dividevano la porta d’ingresso dalla cattedra prima di iniziare a sventolare a destra e a manca un quaderno e a dare della meretrice ad una povera mosca entrata dalla finestra, e che aveva scelto il suo cranio come pista d’atterraggio.
I suoi gesti e queste parole poco consone ad una platea di studenti in evidente fermento furono sufficienti a trasformare la cagnara in una risata collettiva, quasi isterica, che terminò la sua metamorfosi in un silenzio figlio dello stupore generale, quando l’insolito personaggio appena entrato in classe si sedette sulla sedia posta dietro la cattedra verde, appoggiò quel quaderno che si rivelò essere il suo registro personale e con un tono semiserio disse:
“Buongiorno ragazzi, sono il vostro nuovo professore di Chimica”.
Nessuno poteva credere alle sue parole, l’uomo che con un esordio epico aveva appena dato della puttana ad una mosca sarebbe stato il nostro professore di chimica per il resto dell’anno. Nessun professore e ripeto, nessun professore nella mia intera carriera scolastica prima e universitaria poi era stato in grado di ipnotizzare una classe intera nei primi dieci secondi successivi all’ingresso in aula. Si sarebbe avvicinato il professore di Storia della Musica, durante gli anni universitari, quando a dieci minuti dall’inizio della prima lezione si cimentò al pianoforte suonando “Il cappello a tre punte”: ottimo tentativo ma troppo distante dall’impareggiabile debutto del professore di chimica.
Il silenzio era sceso imperterrito sulla classe, ma non era un silenzio apprensivo, era quel silenzio temporaneo, in apnea, pronto a scoppiare in una risata alla perla successiva. Ricordo ancora qualche sghignazzata provenire dai quattro cantoni della classe durante il sacro rito dell’appello, mentre nella mia mente l’idea di non aprire il libro di chimica iniziò a vacillare, non potevo deludere un personaggio che aveva anteposto alle fredde formule chimiche tanta goliardia e personalità. Ma il debutto goliardico fu controbilanciato da una lezione impeccabile introdotta con la definizione di chimica come quella parte di scienza che studia la struttura, le proprietà e le trasformazioni della materia. Il professore aveva deciso di custodire quelle perle di comicità per poi seminarle minuziosamente nelle lezioni a venire.
La stessa mosca dai facili costumi sarebbe diventata un leitmotif, una metafora utilizzata dal professore durante le lezioni dei mesi successivi, come quando nel tentativo di farci capire come calcolare il peso specifico assoluto, e cioè il rapporto tra il peso di un corpo P e il suo volume V, ci disse:
“Prendiamo ad esempio una mosca di cinque chili. Ao l’avete mai vista una mosca di cinque chili?”
Solo anni dopo, durante i miei studi di Tecnologie educative, avrei capito come queste perle in grado di far ridere la classe intera o di farla riflettere sulle leggi di Lavoisier, Proust, Dalton, Gay-Lussac, altro non erano che capisaldi di un efficace metodo elicitativo che partendo da un'allegoria, da un caso, da un esempio, esortava gli studenti a renderli più partecipi alla lezione.
Ma le lezioni del professore di chimica, che d’ora in poi chiameró Immobile per utilizzare un sinonimo del suo nome, erano forse troppo all’avanguardia per una platea di studenti abituati ad un sistema educativo ancora un po’ troppo tradizionale, siamo nel secondo lustro degli anni 90 e la pedagodia attuale è distante anni luce. Mi piace pensare al professor Immobile come il primo archetipo di professore moderno di materie scientifiche, una sorta di Vincenzo Schettini con meno successo in ambito social. Le sue lezioni caratterizzate da scene teatrali, nozioni semplici ma effettive, riflessioni stimolanti ed esempi pratici che a volte potevano mettere a rischio l’incolumità psicofisica di tutte le persone in classe, come quando diede fuoco ad un tessuto naturale scambiandolo per uno ignifugo, erano perle che sarebbero finite su quaderni degli appunti, diari di classe e nei ricordi dei suoi studenti.
C'è, tuttavia, un episodio che ha elevato la figura del professor Immobile al rango di icona indimenticabile, un evento scaltro come la "Mano de Dios" di Maradona contro l'Inghilterra, e memorabile come i leggendari discorsi di Martin Luther King e Winston Churchill. Questo episodio ha trascritto il nome del professor Immobile nel Pantheon degli educatori indimenticabili, la cui eredità trascende il quotidiano per toccare l’immortalità.
Erano passati pochi giorni dal furto dello stereo della macchina utilitaria, parcheggiata dal professore giusto accanto al plesso del liceo per poterla controllare dalla finestra durante la pausa tra le lezioni. Alcuni balordi avevano rotto i vetri dello sportello del conducente e avevano portato via quanto possibile, scatenando la furia del professore che, nell'occasione, aveva abbandonato il suo eloquio ricercato a favore di un linguaggio colorito e popolaresco, che avrebbe richiesto sottotitoli per essere compreso.
Io ed il mio compagno di banco Giuseppe, come consuetudine, approfittando della manciata di minuti di pausa tra una lezione e l’altra decidemmo di allontanarci dal plesso per recarci al bar del quartiere e concederci un bel panino farcito. Cogliemmo l’occasione per controllare la macchina del professore e al ritorno la nostra attenzione fu catturata da una donna sulla sessantina seduta nella macchina del professore, che quasi accovacciata sul volante, stava ingarbugliando dei fili. Preoccupati per l'ulteriore sventura che sembrava abbattersi sul professor Immobile e sui suoi beni, corremmo a perdifiato in aula. Il nostro educatore ci accolse con uno sguardo che oscillava tra l’irritazione e il fastidio e con una voce affannata gli raccontammo quello che avevamo appena visto, esortandolo a verificare di persona la situazione presso la sua automobile. Contrariamente alle nostre aspettative, la reazione del professore fu inaspettata: le nostre parole sembrarono rilassare la sua espressione tesa e il suo volto si ammorbidí dietro un ghigno simile a quello di Jigen, il migliore amico di Lupin. Fu allora che ebbe inizio uno scambio di battute memorabile, destinato a rimanere impresso nella storia del liceo:
Prof: Ragazzi, la signora aveva i capelli bianchi?
Io e Giuseppe: Si, professo’
Prof: E stava facendo la calzetta?
Io e Giuseppe: Ehhh sì, probabile, stava facendo qualcosa con dei fili
Prof: Tranquilli, è mia madre l’ho lasciata in macchina a fare da vigile così quei poco di buono non mi rubano più niente
Bastò una frase pronunciata con sarcasmo e disinvoltura a far esplodere la classe in una risata collettiva alla quale partecipò lo stesso professore. Se chiudo gli occhi e mi concentro posso ancora sentire i suoni acuti delle risate adolescenziali dei miei compagni dominate dalla grassa risata baritonale del professor Immobile. Fu quel momento ad incoraggiare il mio interesse, fino ad allora bassissimo, per la chimica, perché fu allora che cominciai a percepire la poesia nascosta tra le reazioni e le molecole, a tracciare un parallelo tra la disciplina e l'uomo che la insegnava, un personaggio preparato nel suo campo, ma dotato di un'ironia che poteva quasi competere con quella di Trilussa.
Le settimane iniziarono a scorrere imperterrite dopo quel giorno e a dire il vero le lezioni del professor Immobile ebbero i risultati anticipati a inizio corso: gli studenti maggiormente propensi alle materie scientifiche ebbero ottimi risultati, mentre gli allievi predisposti prevalentemente agli studi umanistici si persero tra formule, domande e anni dopo in ricerche su internet per verificare la corretta definizione di “peso specifico assoluto”.
Penso spesso a questo evento, a questa semplice storia sottratta all’oblio, penso al professor Immobile che non vedo dalla fine di quell’anno scolastico, ai lineamenti del suo volto ormai ofuscati dall’incedere del tempo, penso agli amici e alle amiche con cui ho condiviso quelle grasse risate in quel preciso frangente di vita, penso alla finestra dell’aula che dava sul campo da calcetto in asfalto e ai sogni che ci aspettavano al di fuori delle mura scolastiche.
Da questa stanza di un appartamento del centro di Dublino, dove i cammini della vita mi hanno condotto, penso ai ragazzi che oggi stanno effettuando gli esami di maturità e stanno per intraprendere un nuovo percorso di vita che li accompagnerà altrove, verso luoghi fisici e mentali che forse adesso non sanno nemmeno di poter raggiungere. Quei ragazzi che fra 25-30 anni cercheranno le foto ingiallite degli anni del liceo o molto probabilmente quelle smarrite in smartphone o archivi digitali, per rivedere il volto di un professore istrionico, come il nostro caro professor Immobile, di cui si ricorda sempre meno. Quei ragazzi che cercheranno nella magia delle foto di classe dei cinque anni di liceo l’escapismo estremo in grado di portarli per una frazione di secondo lontano nel passato, a rivedere la gioventú diventare età adulta nei volti dei compagni di classe, a risentire per un solo attimo la brezza di quegli anni in cui tutto era semplice, spensierato, bello e quando bastava una mosca meretrice o qualsiasi altra sciocchezza per ridere spensieratamente.
Una narrativa meravigliosa. Mi è sembrato di vivere in quegl'anni e in quei luoghi senza mai esserci stato davvero. Complimenti Max!